Quando riapro gli occhi il sole non è ancora troppo alto. Controllo l’orologio, segna le nove in punto. Mi giro verso di lei che dorme ancora, stremata, con i capelli sparsi sul cuscino e il cuore arreso piú o meno all’altezza del mio o del Senna. Quella figura minuta e graziosa seppellita sotto chilometri di coperte e materiali onirici respira forte come una Ford di ultima generazione. L’aria che le esce dalla bocca è calda ed invisibile, ma assume morbide forme che ricordano quelle di un leone alato, prende il volo, allontanatosi dall’aeroporto dei suoi lobi cerebrali dissimula la paura dell’immensitá di camera mia attraverso un espressione impenetrabile. Batte le ali velocemente sale verso il soffitto senza grandi difficoltá. Appena scompare oltre il solaio lei si gira verso di me. Apre gli occhi. “Buongiorno”. “Buongiorno” le rispondo con un filo precario di voce. Mi abbraccia. Poi vado in cucina prendo le due tazze e le riempio di latte e cereali, evitando di comporre la fastidiosa sinfonia di tutte le altre mattine. Prendo due cornetti e metto tutto su un vassoio. Mentre attraverso il corridoio mi chiedo cosa penserebbero queste mura e cosa avrebbero il coraggio di dirmi se potessero parlare. Mangio velocemente come al solito, lei molto piano. Vorrei aprire la finestra, ma non voglio cambiare aria. “Come hai dormito?” Mi chiede. “Ho dormito meglio del solito.” Le rispondo. Sorride. Mentre mastico gli ultimi cereali rimasti una vampata di calore si alza dalla punta dei piedi verso l’inguine. La sensazione di lasciarsi scivolare dalle mani la cosa piú preziosa che possiedi. Il battito accelera e si trascina con sè il respiro. Mi guarda sgranando gli occhi e mi chiede se sto bene. Si, sto bene. Ma queste sono quelle domande che nelle situazioni migliori ti rovesciano un po’ tutte le ciotole e le convinzioni. Che le persone se sapessero in che condizioni reali si trovano avrebbero piú paura di me chiuso in ascensore. Nelle orecchie il flusso incessante del sangue, mentre vorrei essere a Parc Monceau, ma fondamentalmente sono in quel cesso che è camera mia. Continua ad accarezzarmi mentre mi vedo da solo sotto una lastra di ghiaccio della Groenlandia, nessuno dei suoi amici di Greenpeace mi verrá a salvare. Qualcuno mi dice “Ti stai raffreddando.” Ma io vedo solo il bianco del ghiaccio e l’azzurro del cielo. Non riesco a scalfire questa lastra che mi separa dalla vita, i segni del mio passaggio su questa terra restano al di sotto di questo pezzo di ghiaccio, solo dei graffi. Sento tutti i muscoli che mi si irrigidiscono, dopo una lunga serie di piccoli spasmi. Mi risveglio due ore piú tardi, completamente sudato e con molta fame. Lei si è addormentata completamente su di me, e i miei muscoli schiacciati da quel piccolo ammasso di organi, si sono addormentati. Fortunatamente si sveglia poco dopo e si sposta, ma non troppo. “Che ti è successo?”. “Nulla, stai tranquilla, penso solo di avere la febbre” le rispondo. “Non è vero, dimmi che cazzo hai” mi grida arrabbiata. “Ho la febbre”. Si alza e attraversa il corridoio, non so se andava in cucina o in bagno o in salotto o al balcone. Non sento più nessun suono, non puó essere andata via in pigiama, i vestiti sono ancora per terra. Attraverso la casa con un terremoto nella calotta cranica. È seduta sul divano con le gambe incrociate e fuma agitata. Le lancio un bacio alle spalle, magari non si sposta. Poi mi stendo sul divano e su di lei. Mi accarezza i capelli e il viso, ed è come se mi passassero sulla pelle una piuma. È ancora arrabbiata con me, ma non me lo lascia intendere facilmente. Mi bacia nonostante la febbre, nonostante mi senta un fiume nella stagione del disgelo. Le chiedo se vuole venire a letto, mi sorride. È il corteo piú pacifico e amorevole che abbia mai fatto in quel corridoio. Le sfilo quei pochi vestiti che indossa, poi sento il palmo caldo della sua mano che mi descrive tutte le rotte che percorreremo assieme, sulla schiena. Mi spoglia e mentre la tocco mi sorride con la malizia che solo lei sa simulare. Quando mi ritrovo dentro di lei e calmo come un bambino mentre dorme, ci guardiamo affondo, cerchiamo di rilevare ogni increspatura dell’animo, ogni cicatrice che gli altri ci hanno lasciato sulla pelle e nel cuore. Trovate le fratture ci ingessiamo con criterio, ancora attaccati l’uno all’altro. I miei battiti accelerano vistosamente, e come un poliziotto a cui non sfugge nulla, lei se ne accorge. Ansima con forza e io sono felice, di quel piacere stupido e carnale del quale amo esserne la causa. Piove forte e il cielo è completamente grigio, mentre io ricordo di aver dimenticato l’ombrello. Spingo più forte, lei ansima piú forte. Una gara di resistenza, partigiano portami via.
Noi saremo
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell’amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l’anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
-Paul Verlaine