Sogno

Mi ero ritrovato in una foresta che doveva essere nordeuropea, data la grande presenza di abeti. Sul fiume mi era comparsa una strana figura, che ad oggi non so ancora definire, un bambino, di etá tra gli otto e dieci, vestiva come se provenisse dagli anni quaranta, calzini alti bianchi, un pantaloncino blu forse troppo corto, una camicia chiara, ingrigita e una cintura usurata. Aveva il volto tumefatto, il sangue dalle labra rotte aveva lievemente sporcato la camicia. In un primo momento ho creduto parlasse un altra lingua e ricordo di avergli gridato per tre volte che non lo capivo. Poi una lingua di fuoco ad illuminargli il volto, la teneva tra le mani, ma non bruciava. “So cosa sei diventato, non devi aver paura di saperlo, tutti corriamo per anni nel fango come cavalli bendati e arrivati al traguardo dimentichiamo il tragitto”. Non capisco, e la mia bocca si muove, ma non riesco a parlare. Il bambino si bagna il capo, ed io intravedo mia madre tra gli alberi, oltre quella figura minuta. “Stai tranquillo, ho il segreto al sicuro, nessuno sa quello che sei, ma questo peccato lo sconterai non sapendo mai quello che sono gli altri”. Gli rispondo “non è un peccato, merito una protezione dal mondo”. Ora tiene quella lingua luminosa solo sulla mano destra e il suo volto si dipinge della rabbia di mio padre, mi porge un fazzoletto e mi dice “davvero credi di essere protetto, svegliati” il fuoco si spegne e il bambino tace. Continuo a gridargli con rabbia che una protezione me la merito, ma lui mi strattona un braccio, mi abbasso e lancia il pugno più doloroso che abbia mai ricevuto. Il sapore ferroso del sangue è l’ultima cosa che ricordo. Poi mi sono svegliato

armando

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Ascensore

Rientrato in casa, inizio a studiare, quando ho paura di pensare seppellisco la testa nei libri. Faccio una breve pausa per un tramezzino e un bicchiere di aranciata. Accendo un’altra sigaretta e mi siedo di nuovo alla scrivania. A volte quando ti rendi che le cose sono cambiate, è troppo tardi, o speri semplicemente che lo sia. Ed il nostro corpo ce lo insegna meglio di chiunque altro, dopo un determinato lasso di tempo senza nutrienti sei morta, e la cosa migliore è che neanche Dio puó farti tornare indietro. Ma allora Dio ha creato e alimentato il male? Questa è difficile da spiegare, ed é uno dei Misteri che avvolge l’onnipotente. Egli l’ha creato solo nella quantitá da cui può trarne il bene. Non chiederti dov’è Dio, quando gli americani falciano vite con bombe a grappolo, quando Hitler nasce, quando al televisore vedi i volti dei bambini africani segnati dalla fame e dalla malattia, non chiederti dove sia, perchè non sei all’altezza. Memtre rileggo per la seconda volta la stessa riga, che dovrebbe dirmi qualcosa sui neurotrasmettitori penso che sono nell’occhio del ciclone. La mia vita a Parigi, un istruzione in corso d’opera, una vita con delle enormi impalcature, in ristrutturazione, come i nostri comportamenti peggiori. E bagno le pagine del libro con tutti i sali minerali che ho chiusi all’interno, che avevo chiusi all’interno, ma poi è come se fosse entrato qualcuno dentro e abbia portato via con sè, nel suo zaino, tutti liquidi. Mi consolo sperando che siano serviti per alimentare delle piante, nelle regioni desertiche, come i nostri sogni, che sfiorano i tralicci dell’alta corrente e bruciano in un istante. Come noi e le nostre speranze. Quando sono entrato nel tuo cuore, ho avuto cura di mettere dei copriscarpe, per non lasciare impronte o cicatrici, ma attraversando la tricuspide, per sbaglio ti ho bruciato con la sigaretta. Hai sussultato, ma non era nulla in confronto a quelle ustioni scure che avevi su ogni parete. Gli effetti collaterali non saranno mai i primi ad essere presi in considerazione, dicevano. È notte fonda quando decido di smettere, ho quasi finito le sigarette e tu hai telefonato una sola volta, per assicurarti che fossi vivo. E resto sveglio, oltre le due, oltre le luci dei lampioni, i programmi televisivi scadenti e la mia ombra che gioca con me nell’altro lato del letto. Sporco e stanco chiudo gli occhi, ancora una volta, ma Parigi non è pronta a bruciare.

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La cronaca nera per colazione

Sono le sette quando mi si spalancano gli occhi, nell’altra parte del letto non c’è nessuno, solo la luce che entra dalla finestra, e piú che calore e compagnia mi ricorda solo quanto sia doloroso riaprire gli occhi. Le pieghe del lenzuolo lasciano come dei cerchi di grano, indelebile pieghe sul materasso e piaghe sulla mia pelle. Non ho nessuna voglia di fare colazione in casa, mi lavo e mi vesto di fretta, nel terreno di battaglia che è diventata casa mia non trovo nè l’orologio, nè le sigarette. Ho giá guardato il cellulare cinque volte, nell’arco di una mezz’ora scarsa, nessun messaggio. Prima di uscire dalla porta mi fermo per due minuti buoni allo specchio, gli abiti sono piú o meno abbinati, le scarpe allacciate, e il buco sulla punta non si vede piu di tanto, metto una giacca e attraverso la soglia che mi separa dal mondo e dall’universo con tutti i suoi pianeti lontanissimi da lei. Scendo rapidamente queste scale sporche, non sono ancora le nove, ma ci sono giá troppi volti in giro, e pochi essere umani. Qualche ragazzino in ritardo corre verso la scuola piú vicina, mi spingono, mi urtano. “Guarda dove vai?” Riesco a stento a tradurre. Erano passati quattro giorni da quando sono uscito di casa l’ultima volta, mi ero chiuso tra i libri e i becher, avevo dimenticato tutto quello che riguardava me stesso, ma non una sola nozione di chimica. Passo davanti ad un edicola e anche se non sono uno che abitualmente prende il giornale, lo copro. Mi siedo in un bar qualche metro piu avanti e saltando la prima pagina, scorro la cronaca nera. Leggo ” Pochi giorni fa il cadavere di una donna è stato ritrovato chiuso in un sacco di plastica che galleggiava nel canale dell’Ourcq, alla periferia nord-est di Parigi. La donna, che non è stata ancora identificata, era stata legata in posizione fetale e aveva delle ferite sul volto, segno di una probabile colluttazione.” Ci resto male, come al solito quasi, non se ne sentivano cosi da un po’ escludendo quello che accade nelle banliues, c’è ancora gente cattiva nel mondo? Si, mi rispondo, ricordo che mio padre mi diceva che l’erba cattiva non muore mai, forse era solo un tentativo di autoconservazione, di mantenersi sano, nomostante tutti gli errori volontari e non, che ha commesso. Bevendo il caffè, che è peggio del solito, mi ricordo dei riflessi condizionati, dell’istinto e di tutti gli studi che ho svolto sulle varie turbe comportamentali che affligono me e quelli a me più prossimi. Il caffè brucia e senza neanche accorgermene ho la tazza di nuovo distante dalla mia bocca, ed era proprio cosí, mio padre quando cercava di convincersi di aver onorato la sua vita e di averla condotta con criterio e giustizia, cercava unicamente di creare dei cavilli legali, neanche troppo sottili per assolvere tutte le sue colpe che sfilavanp davanti alla sua coscienza. Proprio come quell’assassino che ancora prima di costituirsi dovrá tenere conto della sua coscienza. Un confronto che io al suo posto non potrei affrontare. Il caffè non brucia più. Lo bevo lentamente e mi accendo una sigaretta. Guardando l’orologio vedo che sono da poco passate le dieci, i primi coraggiosi turisti attraversano la strada con abitivi sportivi e sogni inverosimili, chissá tu che sei stata ritrovata come un sasso nel letto del fiume se sai che qui ora sono le dieci, che un inglese sta passeggiando calmo con la moglie, chissá se sai che il semaforo è appena diventato verde, chissá se ora ti stai bagnando anche tu nelle lacrime dei tuoi cari, proprio come me che a fine giornata, mi immergo nel Gange che è solo la mia vasca da bagno. Accendendomi un altra sigaretta penso che dovevi essere dura come il marmo, quando i vigili del fuoco ti hanno fatto risalire le acque, come il marmo su cui ti hanno stesa oggi. Poi ricordo un passo particolare della Bibbia, un lampo, nel buio di questa tempesta filosofica, in Ecclesiaste 9:5,6,10 : “Infatti, i viventi sanno che moriranno; ma i morti non sanno nulla, e per essi non c’è più salario; poiché la loro memoria è dimenticata. Il loro amore come il loro odio e la loro invidia sono da lungo tempo periti, ed essi non hanno più né avranno mai alcuna parte in tutto quello che si fa sotto il sole……. Tutto quello che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze; poiché nel soggiorno de’ morti dove vai, non v’è più né lavoro, né pensiero, né scienza, né sapienza.”
E quando smetto di recitarlo nella mia testa, sono giá di ritorno, mi è sembrata un’eternitá, da solo per questa cittá immensa, sempre e solo patetico come un cane nello spazio.

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L’altro lato del ponte

Ci svegliamo nel tardo pomeriggio, come al solito abbiamo saltato il pranzo. Ha ancora sonno mentre le accarezzo sotto la maglietta, ma cerca in ogni modo di restare dolce. Decidiamo di mangiare qualcosa, mentre prepara con templi biblici un semplice piatto di pasta mi chiede se mi sento meglio. Le rispondo vagamente, ma sto meglio sul serio. In questi pochi anni di vita ho capito che mi è piú difficile di quanto pensi, esternare i codici che ho dentro. mentre lei cerca di tradurli al buio, si sente solo il suono fastidioso delle forchette che si scontrano con la porcellana dei piatti. A volte penso che gli universi interiori sono come le mappe della metropolitana di londra, che se sei un po’ più stupido degli altri, non ci capisci nulla. Entra spingendo la porta con un calcio, il caschetto e l’estintore per bagnare tutti i miei fuochi interiori e calmarmi, come quando sotto la lingua scioglievo la tachipirina. Finito di mangiare, lasciamo tutto nel lavandino “faccio io” le dico. Non mi rispondende, ha bisogno di uscire, come i cani. Andiamo a fare una passeggiata, ma è lei che porta a spasso me, ci sediamo sul ponte, mentre le luci scappano oltre i tetti di quei palazzi laggiù. “Ci hai mai pensato alla vita dei politici, ai finti artisti, a chi si sente sempre un passo avanti e in questa convinzione ci tesse delle ragnatele per incastrare gli altri”, mi guarda con gli occhi che sono dei punti interrogativi giganti e continua “ai tubi catodici dei computer, ai telefoni cellulari, la theleton, l’aids, il sussidio di disoccupazione, c’hai mai pensato alle dipendenza dalla droga, dal gioco d’azzardo, dal sesso e dal dolore? Quando cammino da sola mi diverto a immaginare che fardello si porti in braccio la gente, che passeggia con le maschere attaccate dietro la nuca, le saracinesche sugli occhi”. È davvero necessario nella catena cacciatore raccoglitore sapere tutto quello che sappiamo oggi. La guardo cercando tra i suoi capelli delle risposte adatte a quelle domande, ma vomito una ricca successione di parole, che alla fine mi sembrano non essere nulla di che. Penso che siamo tutti arrabbiati con noi stessi e con gli altri, che se avessimo avuto piu tempo da dedicare a noi stessi, oggi saremmo più alti e più belli. Ma inevitabilmente l’orologio si è portato via i tuoi giorni migliori ed è come se io mi senta un gelato ai frutti di bosco, pronto a chiuderti lo stomaco, ancora una volta, magari l’ultima. Le cravatte che quegli altri non sanno nemmeno allacciarsi, li impiccheranno, o comunque è quello che mi auguro. Mentre mi vergogno per i panni sporchi che ho lasciato nella vasca da bagno, tu accendi una candela sul mio cuore e mi gridi di non preoccuparmi. Ma sono pronto a scendere dal ponte in un modo poco convenzionale e che potrebbe spaventarla, ma le dico di non preoccuparsi, che sono testardo davvero e non mi faccio male. L’acqua è diventata scura e sembra trascinarsi via tutti i giardini diversi in cui abbiamo scopato, la memoria interna dei computer, e le promozioni telefoniche che oggi, dici, siamo convinti di aver sprecato.

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Frammento A

Un articolo di giornale attira la tua attenzione alle sette del mattino, mentre io litigo con i cereali, le tazze e i bicchieri. Bisogna far presto o finisce come ieri, ma noi non vogliamo neanche finire, figuriamoci se vogliamo finire come ieri. Le regole grammaticali che sento di non rispettare mai mi porteranno al massimo in cantina, a rovistare tra elenchi telefonici e futuri inverosimili. Non c’è un cazzo da capire. Non c’è un cazzo da capire. A volte penso che se mi tagliassero a pezzetti e il vento non mi disperderebbe, finirei in un grande barattolo con l’etichetta bianca “adolescente frustrato”. Magari nel mondo in cui i fraintendimenti sono socialmente accettati, mi avrebbero scambiato per un martirei. Io l’unica cosa che scambierei sarebbero i miei occhi, le lenzuola non le laverei mai, avrei paura di scambiarle quelle. Trasfusioni di organi e di sangue per diventare la stessa persona, ma non saremo mai di cemento armato, guarda come siamo friabili. E sono le nostre lacrime a superare gli argini, arrivare ai grattacieli, grattarsi il capo e i pensieri. Dove saremo tra dieci mila anni? Cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero?

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Oltreoceano

Non c’era molto da chiederesi su quelle persone che non vogliono altro che la libertá, ma poi si ritrovano in metropolitana all’ora di punta e in giacca e cravatta. Allora arrivano tempestivamente le scale mobile per staccare i tuoi occhi da quelli di qualcun altro. Senza il minimo movimento sono tutti in fila, in ordine, come dei leoni ammaestrati. Hai la forza e l’astuzia per far deragliare un convoglio americano all’avanguardia, con un solo tremendo ruggito sul cuore. Ma non lo fai mai e la tua criniera sferzata dal vento non ripiegherá su se stessa e non ti sporcherá l’anima. Mi risveglio totalmente sudato alle quattro del pomeriggio e con l’alito peggio del solito. Fortuna che non dorme nessuno vicino a me oggi, mi dico. Mi convinco che bastino tutte le stelle dell’universo e fondersele in corpo per ricoprire le cicatrici e comprarsi abiti costosi per rispettare la conformazione sociale piú adatta a me. Parigi brucia, lontana da me, oltre le montagne ci sono dei bagliori, ma non riusciamo a capire se sia un temporale, o una discoteca. Risparmiare le parole perchè oggi non si crede più, perchè i fogli a cui mi affido in vano costano troppo. Questo razzismo dilagante che mi fa arrabbiarre tu che cambi come cambia il vento, la vela di un vecchio veliero ligure. Attraversi l’oceano atlantico chiuso in una gabbia nella stiva di una nave, leone, ti hanno strappato alla vita, a tua madre, ma ancora non lo sai. Oltre le grate di questa prigione, solo il rumore del mare, del sonno che corre via, e delle stelle, che dal mare si vedono meglio. Dove sei stato i tuoi primi mesi di vita? La ricordi la savana? Gli indigeni che si lavano al fiume, raccolte di bacche e antilopi in fuga. Ma alla fine avevi mal di testa e ti sei addormentato, con le fauci tra le sbarre, guardando le stelle e sognando una casa.