Un bagno caldo

È passata più di una settimana dall’ultima volta che l’ho vista. Prima di arrivare con la sua valigia e il suo profumo non mi avvisa mai e mi trovo inevitabilmente a correre da una parte all’altra della casa per mettere apposto tutte le schifezze che lascio in giro quando lei non è con me. 

Bussano alla porta, chiedo chi è. È la sua voce, e non mi rendo conto neanche della risposta che mi ha dato. “Un attimo” grido, mentre cerco le scarpe. Ho il calzino destro bucato. Poi corro verso la porta, inciampando tra un libro e un foglio di carta che è l’ultimo baluardo tra me e lei. Mi rialzo. “Ma che stai combinando?” Mi dice ridendo. Le apro. La guardo e come al solito mi si paralizzano le mani e le corde vocali. Quella che tiene la maniglia la stringe fortissimo, il freddo del ferro mi entra nelle ossa e all’improvviso mi rendo conto che mi sta fissando con forza. “Che dici, mi fai entrare?” Mi chiede col suo tono insolente. È vestita bene, tanto per cambiare, solo un po’ spettinata, ma le dà quel tocco bohemien che mi eccita da morire. Mi scosto dall’ingresso, le prendo la valigia e chiudo la porta. Poso la valigia in camera, meno spaesata del solito si sposta verso la veranda “so dove devo andare” mi dice quasi scocciata. Ogni volta che arrivo la trascino in veranda a fumare, ho bisogno di tempo per sistemare casa. Corro in camera, chiudo i cassetti con i vestiti che hanno devastato gli argini, poso quattro paia di calzini in giro nei pressi del letto nel cestino del bucato. Raccolgo le carte delle merendine e le getto nell’immondizia. Torno in cucina, le pentole aspettano lei, ma getto i fazzoletti sporchi, le briciole dal tavolo e le bottiglie di birra che invadono il lavandino. Mentre vado da lei mi accorgo che ci sono due confezioni del thailandese sul tavolino, le raccolgo e le getto. Poi arrivo finalmente in veranda, una maratona che sembra non finire mai. Ha finito la sigaretta ed è seduta sul divano improvvisato, mi siedo accanto a lei e inizio a toccarle le gambe, dal ginocchio all’inguine. 

“Come stai?” Le chiedo con tono apprensivo.

“Meglio del solito adesso, tu?”

“Me la passo bene, anche se sto studiando parecchio, sono alle prese con il solfato di rame nel tempo libero e con il sistema nervoso, per l’universitá. Mi manca l’amigdala e l’ippocampo, ma ho fatto l’area di Wernicke, la suddivisione in lobi, il cervelletto e la dura madre. Ne avrò ancora per una decina di giorni credo.” 

“Sei sempre molto impegnato tu.” Mi dice con un tono strano. Continua “dovresti prenderti un po’ di tempo per te”. 

E a me viene in mente la prima vacanza che ho trascorso a Barcellona, con quattro amici. Ricordo il vento che feroce mi sferzava il viso e mi disordinava i capelli. E i marocchini che guidano i taxi a 80 km/h in pieno centro. Trenta euro di corsa, in quattro. Ricordo che una mattina a Plaza Catalunya volevano arrestarci per taccheggio in un supermercato, ma abbiamo ripagato tutto e con un po’di fortuna ci hanno lasciato andare. E le fontane che in giro per la cittá non si vedono mai, il Ravàl che è spettacolare, medioevale o medio e basta. 

Si alza e va al bagno. Finisco la sigaretta e la seguo. Entrato in bagno la vedo seduta sul bordo della vasca alle prese con l’acqua. le gambe accavallate e la gonna che le scopre troppo una gamba. 

“Allora questo tempo è per noi, non per me” le dico sorridendo. 

“Ti dispiace?” 

Si sfila la maglietta inutile e la gonna ancora di più inutile, con una fluiditá da fare invidia ad un contorsionista. Toglie i calzini e l’intimo e continua a impartirmi i suoi benevoli ordini. 

“Prendi delle candele, tesoro?” 

Ed io mi sento come se stessero girando un film sulla mia vita e in quel momento la cinepresa si allontanasse da me. Tutto intorno il pallore delle mattonelle, fa sembrare tutto più ampio, mentre io sono pietrificato, o epilettico, come in preda alla sindrome di Stendhal, davanti a questo spettacolo naturale. Che per certi versi è meglio di un esplosione atomica, o un aurora boreale. Corro a cercare le candele e mi spoglio in giro per casa, i calzini li lascio in salotto, la maglietta sulla tavola della cucina. Poi le trovo. Terzo cassetto vicino al frigorifero. Le porto di lá, lei è seduta nuda sul bordo. Mi aspetta. Le accendiamo assieme per velocizzare i tempi. Poi sfilo i pantaloni. Lei infila prima il piede sinistro e poi il destro, si siede così delicatamente da non far spostare l’acqua.  Mi siedo di fronte a lei, mentre penso di essere molto fortunato. Le accarezzo i piedi con i miei. 

“Il tuo tempo lo hai con me e nessun altro.” Mi dice con un tono non troppo severo. 

“E così sia” 

“Hai sentito di quella rapina finita in tragedia a Montparnasse?” Mi chiede curiosa. 

“Parli come un telegiornale, ti lobotomizzeranno.” 

“Quando tu diventerai un bravo medico, cattivone.” Sorride. 

E io mi sento felice. 

Nella più assoluta penombra del bagno la sua ombra proiettata sulle piastrelle sembra definire i limiti di Guernica di Picasso ed io mi sento di nuovo in preda alle allucinazioni. La sua pelle diventata di colore arancione mi invade gli spazi vitali e ne sono felice, non riesco a vedere altro. E nella cera sciolta di queste squallide candele bianche prendono forma i miei ultimi ricordi su Barcellona, sugli armistizi con la quiete e sui torrenti nella stagione del disgelo.

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