Mare Mediterraneo

Si passa lentamente le mani lucide sulle ginocchia, e mi sorride, come una madre, come un amante e come una mantide. Penso che quando le dita smetteranno di danzare sul suo corpo si attaccheranno al mio, e mi taglieranno a pezzetti. Avvolto nel tricolore italiano me ne ritorno al sicuro a casa e in una bara. Oppure a casa e in un bar.
“Mi dicevi della rapina?” Le chiedo.
“Pare siano stati due immigrati, per fame, avanzava timidamente qualcuno ieri al dipartimento, ma nessuno che si espone troppo, non vogliono apparire simpatizzanti per queste orde diaboliche di rifugiati”

“É comprensibile, hanno paura, ma non è giusto. Se apparissero come sono realmente si ritroverebbero isolati. Qui sembra tutto meglio di come è in realtá. Anche io prima di trasferirmi credevo che fosse una cittá gremita solo di stimoli.”

“Dovevi immaginare che fosse così, le persone sono le stesse.” Mi dice, fissando un paio di mattonelle poco sopra la mia testa.

Avrei voluto chiederle di girarsi di spalle e infilarsi tra le mie gambe, ma qualcosa me l’ha impedito.

“Hai ragione” e tento di apparire rassegnato.

Poi mi scava nelle orbite, arriva al nervo ottico e risale al cervello, mentre io mi sento come un ghiacciolo sul fuoco. Cerca, allungando la mano nei pantaloni, vicino alla vasca, le sigarette e me ne offre una. Mentre io penso che non voglio nulla di più, mi invade le lande desolate delle radici con le prime boccate di fumo.

“Ieri Edoardo mi ha chiesto di accompagnarlo a trovare Bea e non ho avuto il coraggio di negargli il mio supporto aereo.”

“Bravo, sono fiera di te”, ma il suo tono ha una marcata vena sarcastica.

“Smettila, posso aiutarlo, lo faccio.” Inizio a sentire il caldo del deserto che precede la tempesta di sappia. Ricorri ai bunker antiatomici, irrintracciabili dai miei radar e dalle mie paranoie. “Quando la siepe è troppo alta meglio girarci intorno.”

“Sei uno stronzo” sono le sue ultime parole prima di alzarsi. L’acqua che schizza mi va negli occhi, almeno se ho gli occhi rossi è colpa del sapone. Completamente nuda, scopare oltre la porta. E io riesco finalmente a stendermi comodamente. I leggeri raggi di sole che filtrati dalla persiana, arrivano in acqua, mi ricordano le scene di quei film di guerra in cui si vedono i colpi attraversare fulminei i primi metri d’acqua. E io mi riduco come un cesto bucato, faccio acqua da ogni parte, come i miei ragionamenti e i miei rapporti umani. Che una volta le p38 caricate a sale sarebbero riuscite a fare davvero male, mentre qualcuno guarda Milano da una finestra del terzo piano delle case popolari dove si è trasferita tua madre, e pensa che Milano è ancora tutta da bere. Passeggiare sulla costa della Manica o sui navigli milanesi, con nelle mani una chitarra e un computer. Guardando le mie gambe tra la schiuma e l’acqua ormai torbida mi chiedo sempre se mi sto comportando bene, se chi amo mi rispetta e se rispetto chi amo. Purtroppo, penso, non riuscirò mai a fidarmi a pieno e forse nessuno può farlo davvero, forse non ce n’è neanche bisogno, in amore in guerra e sul lavoro. La punteggiatura che diventa un agopuntura, per ricordarci delle contraddizioni e dei dolori cronici. L’acqua schizza di nuovo, e le lacrime sulle piastrelle hanno giá iniziato una gara, che è anche giá conclusa nell’assoluta consapevolezza, che siamo solo due gocce d’acqua in un maremoto. Che le inondazioni del mio bagno erano dovute solamente ad un pugno.

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