Un bagno caldo

È passata più di una settimana dall’ultima volta che l’ho vista. Prima di arrivare con la sua valigia e il suo profumo non mi avvisa mai e mi trovo inevitabilmente a correre da una parte all’altra della casa per mettere apposto tutte le schifezze che lascio in giro quando lei non è con me. 

Bussano alla porta, chiedo chi è. È la sua voce, e non mi rendo conto neanche della risposta che mi ha dato. “Un attimo” grido, mentre cerco le scarpe. Ho il calzino destro bucato. Poi corro verso la porta, inciampando tra un libro e un foglio di carta che è l’ultimo baluardo tra me e lei. Mi rialzo. “Ma che stai combinando?” Mi dice ridendo. Le apro. La guardo e come al solito mi si paralizzano le mani e le corde vocali. Quella che tiene la maniglia la stringe fortissimo, il freddo del ferro mi entra nelle ossa e all’improvviso mi rendo conto che mi sta fissando con forza. “Che dici, mi fai entrare?” Mi chiede col suo tono insolente. È vestita bene, tanto per cambiare, solo un po’ spettinata, ma le dà quel tocco bohemien che mi eccita da morire. Mi scosto dall’ingresso, le prendo la valigia e chiudo la porta. Poso la valigia in camera, meno spaesata del solito si sposta verso la veranda “so dove devo andare” mi dice quasi scocciata. Ogni volta che arrivo la trascino in veranda a fumare, ho bisogno di tempo per sistemare casa. Corro in camera, chiudo i cassetti con i vestiti che hanno devastato gli argini, poso quattro paia di calzini in giro nei pressi del letto nel cestino del bucato. Raccolgo le carte delle merendine e le getto nell’immondizia. Torno in cucina, le pentole aspettano lei, ma getto i fazzoletti sporchi, le briciole dal tavolo e le bottiglie di birra che invadono il lavandino. Mentre vado da lei mi accorgo che ci sono due confezioni del thailandese sul tavolino, le raccolgo e le getto. Poi arrivo finalmente in veranda, una maratona che sembra non finire mai. Ha finito la sigaretta ed è seduta sul divano improvvisato, mi siedo accanto a lei e inizio a toccarle le gambe, dal ginocchio all’inguine. 

“Come stai?” Le chiedo con tono apprensivo.

“Meglio del solito adesso, tu?”

“Me la passo bene, anche se sto studiando parecchio, sono alle prese con il solfato di rame nel tempo libero e con il sistema nervoso, per l’universitá. Mi manca l’amigdala e l’ippocampo, ma ho fatto l’area di Wernicke, la suddivisione in lobi, il cervelletto e la dura madre. Ne avrò ancora per una decina di giorni credo.” 

“Sei sempre molto impegnato tu.” Mi dice con un tono strano. Continua “dovresti prenderti un po’ di tempo per te”. 

E a me viene in mente la prima vacanza che ho trascorso a Barcellona, con quattro amici. Ricordo il vento che feroce mi sferzava il viso e mi disordinava i capelli. E i marocchini che guidano i taxi a 80 km/h in pieno centro. Trenta euro di corsa, in quattro. Ricordo che una mattina a Plaza Catalunya volevano arrestarci per taccheggio in un supermercato, ma abbiamo ripagato tutto e con un po’di fortuna ci hanno lasciato andare. E le fontane che in giro per la cittá non si vedono mai, il Ravàl che è spettacolare, medioevale o medio e basta. 

Si alza e va al bagno. Finisco la sigaretta e la seguo. Entrato in bagno la vedo seduta sul bordo della vasca alle prese con l’acqua. le gambe accavallate e la gonna che le scopre troppo una gamba. 

“Allora questo tempo è per noi, non per me” le dico sorridendo. 

“Ti dispiace?” 

Si sfila la maglietta inutile e la gonna ancora di più inutile, con una fluiditá da fare invidia ad un contorsionista. Toglie i calzini e l’intimo e continua a impartirmi i suoi benevoli ordini. 

“Prendi delle candele, tesoro?” 

Ed io mi sento come se stessero girando un film sulla mia vita e in quel momento la cinepresa si allontanasse da me. Tutto intorno il pallore delle mattonelle, fa sembrare tutto più ampio, mentre io sono pietrificato, o epilettico, come in preda alla sindrome di Stendhal, davanti a questo spettacolo naturale. Che per certi versi è meglio di un esplosione atomica, o un aurora boreale. Corro a cercare le candele e mi spoglio in giro per casa, i calzini li lascio in salotto, la maglietta sulla tavola della cucina. Poi le trovo. Terzo cassetto vicino al frigorifero. Le porto di lá, lei è seduta nuda sul bordo. Mi aspetta. Le accendiamo assieme per velocizzare i tempi. Poi sfilo i pantaloni. Lei infila prima il piede sinistro e poi il destro, si siede così delicatamente da non far spostare l’acqua.  Mi siedo di fronte a lei, mentre penso di essere molto fortunato. Le accarezzo i piedi con i miei. 

“Il tuo tempo lo hai con me e nessun altro.” Mi dice con un tono non troppo severo. 

“E così sia” 

“Hai sentito di quella rapina finita in tragedia a Montparnasse?” Mi chiede curiosa. 

“Parli come un telegiornale, ti lobotomizzeranno.” 

“Quando tu diventerai un bravo medico, cattivone.” Sorride. 

E io mi sento felice. 

Nella più assoluta penombra del bagno la sua ombra proiettata sulle piastrelle sembra definire i limiti di Guernica di Picasso ed io mi sento di nuovo in preda alle allucinazioni. La sua pelle diventata di colore arancione mi invade gli spazi vitali e ne sono felice, non riesco a vedere altro. E nella cera sciolta di queste squallide candele bianche prendono forma i miei ultimi ricordi su Barcellona, sugli armistizi con la quiete e sui torrenti nella stagione del disgelo.

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Sogno

Mi ero ritrovato in una foresta che doveva essere nordeuropea, data la grande presenza di abeti. Sul fiume mi era comparsa una strana figura, che ad oggi non so ancora definire, un bambino, di etá tra gli otto e dieci, vestiva come se provenisse dagli anni quaranta, calzini alti bianchi, un pantaloncino blu forse troppo corto, una camicia chiara, ingrigita e una cintura usurata. Aveva il volto tumefatto, il sangue dalle labra rotte aveva lievemente sporcato la camicia. In un primo momento ho creduto parlasse un altra lingua e ricordo di avergli gridato per tre volte che non lo capivo. Poi una lingua di fuoco ad illuminargli il volto, la teneva tra le mani, ma non bruciava. “So cosa sei diventato, non devi aver paura di saperlo, tutti corriamo per anni nel fango come cavalli bendati e arrivati al traguardo dimentichiamo il tragitto”. Non capisco, e la mia bocca si muove, ma non riesco a parlare. Il bambino si bagna il capo, ed io intravedo mia madre tra gli alberi, oltre quella figura minuta. “Stai tranquillo, ho il segreto al sicuro, nessuno sa quello che sei, ma questo peccato lo sconterai non sapendo mai quello che sono gli altri”. Gli rispondo “non è un peccato, merito una protezione dal mondo”. Ora tiene quella lingua luminosa solo sulla mano destra e il suo volto si dipinge della rabbia di mio padre, mi porge un fazzoletto e mi dice “davvero credi di essere protetto, svegliati” il fuoco si spegne e il bambino tace. Continuo a gridargli con rabbia che una protezione me la merito, ma lui mi strattona un braccio, mi abbasso e lancia il pugno più doloroso che abbia mai ricevuto. Il sapore ferroso del sangue è l’ultima cosa che ricordo. Poi mi sono svegliato

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Ascensore

Rientrato in casa, inizio a studiare, quando ho paura di pensare seppellisco la testa nei libri. Faccio una breve pausa per un tramezzino e un bicchiere di aranciata. Accendo un’altra sigaretta e mi siedo di nuovo alla scrivania. A volte quando ti rendi che le cose sono cambiate, è troppo tardi, o speri semplicemente che lo sia. Ed il nostro corpo ce lo insegna meglio di chiunque altro, dopo un determinato lasso di tempo senza nutrienti sei morta, e la cosa migliore è che neanche Dio puó farti tornare indietro. Ma allora Dio ha creato e alimentato il male? Questa è difficile da spiegare, ed é uno dei Misteri che avvolge l’onnipotente. Egli l’ha creato solo nella quantitá da cui può trarne il bene. Non chiederti dov’è Dio, quando gli americani falciano vite con bombe a grappolo, quando Hitler nasce, quando al televisore vedi i volti dei bambini africani segnati dalla fame e dalla malattia, non chiederti dove sia, perchè non sei all’altezza. Memtre rileggo per la seconda volta la stessa riga, che dovrebbe dirmi qualcosa sui neurotrasmettitori penso che sono nell’occhio del ciclone. La mia vita a Parigi, un istruzione in corso d’opera, una vita con delle enormi impalcature, in ristrutturazione, come i nostri comportamenti peggiori. E bagno le pagine del libro con tutti i sali minerali che ho chiusi all’interno, che avevo chiusi all’interno, ma poi è come se fosse entrato qualcuno dentro e abbia portato via con sè, nel suo zaino, tutti liquidi. Mi consolo sperando che siano serviti per alimentare delle piante, nelle regioni desertiche, come i nostri sogni, che sfiorano i tralicci dell’alta corrente e bruciano in un istante. Come noi e le nostre speranze. Quando sono entrato nel tuo cuore, ho avuto cura di mettere dei copriscarpe, per non lasciare impronte o cicatrici, ma attraversando la tricuspide, per sbaglio ti ho bruciato con la sigaretta. Hai sussultato, ma non era nulla in confronto a quelle ustioni scure che avevi su ogni parete. Gli effetti collaterali non saranno mai i primi ad essere presi in considerazione, dicevano. È notte fonda quando decido di smettere, ho quasi finito le sigarette e tu hai telefonato una sola volta, per assicurarti che fossi vivo. E resto sveglio, oltre le due, oltre le luci dei lampioni, i programmi televisivi scadenti e la mia ombra che gioca con me nell’altro lato del letto. Sporco e stanco chiudo gli occhi, ancora una volta, ma Parigi non è pronta a bruciare.

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La cronaca nera per colazione

Sono le sette quando mi si spalancano gli occhi, nell’altra parte del letto non c’è nessuno, solo la luce che entra dalla finestra, e piú che calore e compagnia mi ricorda solo quanto sia doloroso riaprire gli occhi. Le pieghe del lenzuolo lasciano come dei cerchi di grano, indelebile pieghe sul materasso e piaghe sulla mia pelle. Non ho nessuna voglia di fare colazione in casa, mi lavo e mi vesto di fretta, nel terreno di battaglia che è diventata casa mia non trovo nè l’orologio, nè le sigarette. Ho giá guardato il cellulare cinque volte, nell’arco di una mezz’ora scarsa, nessun messaggio. Prima di uscire dalla porta mi fermo per due minuti buoni allo specchio, gli abiti sono piú o meno abbinati, le scarpe allacciate, e il buco sulla punta non si vede piu di tanto, metto una giacca e attraverso la soglia che mi separa dal mondo e dall’universo con tutti i suoi pianeti lontanissimi da lei. Scendo rapidamente queste scale sporche, non sono ancora le nove, ma ci sono giá troppi volti in giro, e pochi essere umani. Qualche ragazzino in ritardo corre verso la scuola piú vicina, mi spingono, mi urtano. “Guarda dove vai?” Riesco a stento a tradurre. Erano passati quattro giorni da quando sono uscito di casa l’ultima volta, mi ero chiuso tra i libri e i becher, avevo dimenticato tutto quello che riguardava me stesso, ma non una sola nozione di chimica. Passo davanti ad un edicola e anche se non sono uno che abitualmente prende il giornale, lo copro. Mi siedo in un bar qualche metro piu avanti e saltando la prima pagina, scorro la cronaca nera. Leggo ” Pochi giorni fa il cadavere di una donna è stato ritrovato chiuso in un sacco di plastica che galleggiava nel canale dell’Ourcq, alla periferia nord-est di Parigi. La donna, che non è stata ancora identificata, era stata legata in posizione fetale e aveva delle ferite sul volto, segno di una probabile colluttazione.” Ci resto male, come al solito quasi, non se ne sentivano cosi da un po’ escludendo quello che accade nelle banliues, c’è ancora gente cattiva nel mondo? Si, mi rispondo, ricordo che mio padre mi diceva che l’erba cattiva non muore mai, forse era solo un tentativo di autoconservazione, di mantenersi sano, nomostante tutti gli errori volontari e non, che ha commesso. Bevendo il caffè, che è peggio del solito, mi ricordo dei riflessi condizionati, dell’istinto e di tutti gli studi che ho svolto sulle varie turbe comportamentali che affligono me e quelli a me più prossimi. Il caffè brucia e senza neanche accorgermene ho la tazza di nuovo distante dalla mia bocca, ed era proprio cosí, mio padre quando cercava di convincersi di aver onorato la sua vita e di averla condotta con criterio e giustizia, cercava unicamente di creare dei cavilli legali, neanche troppo sottili per assolvere tutte le sue colpe che sfilavanp davanti alla sua coscienza. Proprio come quell’assassino che ancora prima di costituirsi dovrá tenere conto della sua coscienza. Un confronto che io al suo posto non potrei affrontare. Il caffè non brucia più. Lo bevo lentamente e mi accendo una sigaretta. Guardando l’orologio vedo che sono da poco passate le dieci, i primi coraggiosi turisti attraversano la strada con abitivi sportivi e sogni inverosimili, chissá tu che sei stata ritrovata come un sasso nel letto del fiume se sai che qui ora sono le dieci, che un inglese sta passeggiando calmo con la moglie, chissá se sai che il semaforo è appena diventato verde, chissá se ora ti stai bagnando anche tu nelle lacrime dei tuoi cari, proprio come me che a fine giornata, mi immergo nel Gange che è solo la mia vasca da bagno. Accendendomi un altra sigaretta penso che dovevi essere dura come il marmo, quando i vigili del fuoco ti hanno fatto risalire le acque, come il marmo su cui ti hanno stesa oggi. Poi ricordo un passo particolare della Bibbia, un lampo, nel buio di questa tempesta filosofica, in Ecclesiaste 9:5,6,10 : “Infatti, i viventi sanno che moriranno; ma i morti non sanno nulla, e per essi non c’è più salario; poiché la loro memoria è dimenticata. Il loro amore come il loro odio e la loro invidia sono da lungo tempo periti, ed essi non hanno più né avranno mai alcuna parte in tutto quello che si fa sotto il sole……. Tutto quello che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze; poiché nel soggiorno de’ morti dove vai, non v’è più né lavoro, né pensiero, né scienza, né sapienza.”
E quando smetto di recitarlo nella mia testa, sono giá di ritorno, mi è sembrata un’eternitá, da solo per questa cittá immensa, sempre e solo patetico come un cane nello spazio.

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L’altro lato del ponte

Ci svegliamo nel tardo pomeriggio, come al solito abbiamo saltato il pranzo. Ha ancora sonno mentre le accarezzo sotto la maglietta, ma cerca in ogni modo di restare dolce. Decidiamo di mangiare qualcosa, mentre prepara con templi biblici un semplice piatto di pasta mi chiede se mi sento meglio. Le rispondo vagamente, ma sto meglio sul serio. In questi pochi anni di vita ho capito che mi è piú difficile di quanto pensi, esternare i codici che ho dentro. mentre lei cerca di tradurli al buio, si sente solo il suono fastidioso delle forchette che si scontrano con la porcellana dei piatti. A volte penso che gli universi interiori sono come le mappe della metropolitana di londra, che se sei un po’ più stupido degli altri, non ci capisci nulla. Entra spingendo la porta con un calcio, il caschetto e l’estintore per bagnare tutti i miei fuochi interiori e calmarmi, come quando sotto la lingua scioglievo la tachipirina. Finito di mangiare, lasciamo tutto nel lavandino “faccio io” le dico. Non mi rispondende, ha bisogno di uscire, come i cani. Andiamo a fare una passeggiata, ma è lei che porta a spasso me, ci sediamo sul ponte, mentre le luci scappano oltre i tetti di quei palazzi laggiù. “Ci hai mai pensato alla vita dei politici, ai finti artisti, a chi si sente sempre un passo avanti e in questa convinzione ci tesse delle ragnatele per incastrare gli altri”, mi guarda con gli occhi che sono dei punti interrogativi giganti e continua “ai tubi catodici dei computer, ai telefoni cellulari, la theleton, l’aids, il sussidio di disoccupazione, c’hai mai pensato alle dipendenza dalla droga, dal gioco d’azzardo, dal sesso e dal dolore? Quando cammino da sola mi diverto a immaginare che fardello si porti in braccio la gente, che passeggia con le maschere attaccate dietro la nuca, le saracinesche sugli occhi”. È davvero necessario nella catena cacciatore raccoglitore sapere tutto quello che sappiamo oggi. La guardo cercando tra i suoi capelli delle risposte adatte a quelle domande, ma vomito una ricca successione di parole, che alla fine mi sembrano non essere nulla di che. Penso che siamo tutti arrabbiati con noi stessi e con gli altri, che se avessimo avuto piu tempo da dedicare a noi stessi, oggi saremmo più alti e più belli. Ma inevitabilmente l’orologio si è portato via i tuoi giorni migliori ed è come se io mi senta un gelato ai frutti di bosco, pronto a chiuderti lo stomaco, ancora una volta, magari l’ultima. Le cravatte che quegli altri non sanno nemmeno allacciarsi, li impiccheranno, o comunque è quello che mi auguro. Mentre mi vergogno per i panni sporchi che ho lasciato nella vasca da bagno, tu accendi una candela sul mio cuore e mi gridi di non preoccuparmi. Ma sono pronto a scendere dal ponte in un modo poco convenzionale e che potrebbe spaventarla, ma le dico di non preoccuparsi, che sono testardo davvero e non mi faccio male. L’acqua è diventata scura e sembra trascinarsi via tutti i giardini diversi in cui abbiamo scopato, la memoria interna dei computer, e le promozioni telefoniche che oggi, dici, siamo convinti di aver sprecato.

armando

Frammento A

Un articolo di giornale attira la tua attenzione alle sette del mattino, mentre io litigo con i cereali, le tazze e i bicchieri. Bisogna far presto o finisce come ieri, ma noi non vogliamo neanche finire, figuriamoci se vogliamo finire come ieri. Le regole grammaticali che sento di non rispettare mai mi porteranno al massimo in cantina, a rovistare tra elenchi telefonici e futuri inverosimili. Non c’è un cazzo da capire. Non c’è un cazzo da capire. A volte penso che se mi tagliassero a pezzetti e il vento non mi disperderebbe, finirei in un grande barattolo con l’etichetta bianca “adolescente frustrato”. Magari nel mondo in cui i fraintendimenti sono socialmente accettati, mi avrebbero scambiato per un martirei. Io l’unica cosa che scambierei sarebbero i miei occhi, le lenzuola non le laverei mai, avrei paura di scambiarle quelle. Trasfusioni di organi e di sangue per diventare la stessa persona, ma non saremo mai di cemento armato, guarda come siamo friabili. E sono le nostre lacrime a superare gli argini, arrivare ai grattacieli, grattarsi il capo e i pensieri. Dove saremo tra dieci mila anni? Cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero?

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Un caso strano a colazione

Quando riapro gli occhi il sole non è ancora troppo alto. Controllo l’orologio, segna le nove in punto. Mi giro verso di lei che dorme ancora, stremata, con i capelli sparsi sul cuscino e il cuore arreso piú o meno all’altezza del mio o del Senna. Quella figura minuta e graziosa seppellita sotto chilometri di coperte e materiali onirici respira forte come una Ford di ultima generazione. L’aria che le esce dalla bocca è calda ed invisibile, ma assume morbide forme che ricordano quelle di un leone alato, prende il volo, allontanatosi dall’aeroporto dei suoi lobi cerebrali dissimula la paura dell’immensitá di camera mia attraverso un espressione impenetrabile. Batte le ali velocemente sale verso il soffitto senza grandi difficoltá. Appena scompare oltre il solaio lei si gira verso di me. Apre gli occhi. “Buongiorno”. “Buongiorno” le rispondo con un filo precario di voce. Mi abbraccia. Poi vado in cucina prendo le due tazze e le riempio di latte e cereali, evitando di comporre la fastidiosa sinfonia di tutte le altre mattine. Prendo due cornetti e metto tutto su un vassoio. Mentre attraverso il corridoio mi chiedo cosa penserebbero queste mura e cosa avrebbero il coraggio di dirmi se potessero parlare. Mangio velocemente come al solito, lei molto piano. Vorrei aprire la finestra, ma non voglio cambiare aria. “Come hai dormito?” Mi chiede. “Ho dormito meglio del solito.” Le rispondo. Sorride. Mentre mastico gli ultimi cereali rimasti una vampata di calore si alza dalla punta dei piedi verso l’inguine. La sensazione di lasciarsi scivolare dalle mani la cosa piú preziosa che possiedi. Il battito accelera e si trascina con sè il respiro. Mi guarda sgranando gli occhi e mi chiede se sto bene. Si, sto bene. Ma queste sono quelle domande che nelle situazioni migliori ti rovesciano un po’ tutte le ciotole e le convinzioni. Che le persone se sapessero in che condizioni reali si trovano avrebbero piú paura di me chiuso in ascensore. Nelle orecchie il flusso incessante del sangue, mentre vorrei essere a Parc Monceau, ma fondamentalmente sono in quel cesso che è camera mia. Continua ad accarezzarmi mentre mi vedo da solo sotto una lastra di ghiaccio della Groenlandia, nessuno dei suoi amici di Greenpeace mi verrá a salvare. Qualcuno mi dice “Ti stai raffreddando.” Ma io vedo solo il bianco del ghiaccio e l’azzurro del cielo. Non riesco a scalfire questa lastra che mi separa dalla vita, i segni del mio passaggio su questa terra restano al di sotto di questo pezzo di ghiaccio, solo dei graffi. Sento tutti i muscoli che mi si irrigidiscono, dopo una lunga serie di piccoli spasmi. Mi risveglio due ore piú tardi, completamente sudato e con molta fame. Lei si è addormentata completamente su di me, e i miei muscoli schiacciati da quel piccolo ammasso di organi, si sono addormentati. Fortunatamente si sveglia poco dopo e si sposta, ma non troppo. “Che ti è successo?”. “Nulla, stai tranquilla, penso solo di avere la febbre” le rispondo. “Non è vero, dimmi che cazzo hai” mi grida arrabbiata. “Ho la febbre”. Si alza e attraversa il corridoio, non so se andava in cucina o in bagno o in salotto o al balcone. Non sento più nessun suono, non puó essere andata via in pigiama, i vestiti sono ancora per terra. Attraverso la casa con un terremoto nella calotta cranica. È seduta sul divano con le gambe incrociate e fuma agitata. Le lancio un bacio alle spalle, magari non si sposta. Poi mi stendo sul divano e su di lei. Mi accarezza i capelli e il viso, ed è come se mi passassero sulla pelle una piuma. È ancora arrabbiata con me, ma non me lo lascia intendere facilmente. Mi bacia nonostante la febbre, nonostante mi senta un fiume nella stagione del disgelo. Le chiedo se vuole venire a letto, mi sorride. È il corteo piú pacifico e amorevole che abbia mai fatto in quel corridoio. Le sfilo quei pochi vestiti che indossa, poi sento il palmo caldo della sua mano che mi descrive tutte le rotte che percorreremo assieme, sulla schiena. Mi spoglia e mentre la tocco mi sorride con la malizia che solo lei sa simulare. Quando mi ritrovo dentro di lei e calmo come un bambino mentre dorme, ci guardiamo affondo, cerchiamo di rilevare ogni increspatura dell’animo, ogni cicatrice che gli altri ci hanno lasciato sulla pelle e nel cuore. Trovate le fratture ci ingessiamo con criterio, ancora attaccati l’uno all’altro. I miei battiti accelerano vistosamente, e come un poliziotto a cui non sfugge nulla, lei se ne accorge. Ansima con forza e io sono felice, di quel piacere stupido e carnale del quale amo esserne la causa. Piove forte e il cielo è completamente grigio, mentre io ricordo di aver dimenticato l’ombrello. Spingo più forte, lei ansima piú forte. Una gara di resistenza, partigiano portami via.

Noi saremo
 
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell’amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l’anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
-Paul Verlaine

 

Passeggiata notturna

Usciti in strada camminiamo a pochi centimetri di distanza. Lei ha paura del buio, io ho paura che dal buio me la portino via. Vivo a Parigi da quando ho iniziato la scuola di medicina, il calendario proprio stamattina mi ricordava che dieci giorni fa sono passati esattamente cinque anni da quando ho iniziato a dire “Bonjour” invece di “Buongiorno”. Ho cambiato diverse case, ognuna per un motivo diverso. Dalla prima mi hanno cacciato perchè ho discusso con il proprietario, dalla seconda perchè ho bruciato in ordine: una lampada, due coperte, la tenda e il frigorifero. Per ora sono nella terza e non ho nè padroni fastidiosi nè coinquilini. “Mi dai una sigaretta” le chiedo. Non mi risponde, ma si scava nelle miniere delle tasche e si sentono centinaia di suoni diversi e metallici. Me la porge, l’accendo. Dopo poco ne accende una anche lei. Mi chiede se conosco Capossela. Le rispondo che non ne ho mai sentito parlare. “Volevo leggere qualcosa di questo autore, speravo potessi dirmi qualcosa”. Le rispondo che mi dispiace ma non ne so niente, che posso chiedere a qualcuno della facoltá e farle sapere. Mi dice “Loro non sono italiani, sicuramente non lo conoscono”. Ma io sono del parere che è sempre meglio provare. Passeggiamo a lungo senza una destinazione precisa, costeggiamo il parco, poi le piccole botteghe ormai chiuse. Mentre guardo per terra penso che sarebbe bello svegliarsi di buon umore ogni giorno della settimana e non solo di Sabato. “Allora amore dove andiamo?” Mi dice, avvolgendomi un braccio attorno al corpo. Io ho sempre l’abitudine di camminare dal lato esterno del marciappiede, come se poi fossi un muro di cemento armato in grado di proteggerla da un magrebino ubriaco alla guida. “Andiamo al Caffè Italiano, magari incontriamo gli altri, prendiamo qualcosa da bere e poi andiamo a prendere una pizza da mangiare a casa, ti va?”. Mi risponde con aria entusiasta “Si che mi va, facciamo quello che vuoi, a me basta che ci sei tu”. Apprezzo tutta la dolcezza di cui sono fortunatamente martire, ma a volte mi sembra surreale. Come un quadro. Il tragitto per arrivare al Caffè è abbastanza breve, ma troviamo sempre il tempo per perderci nei nostri discorsi da sognatori. Camminando su quei marciapiedi sporchi mi chiedo silenziosamente, come puó un bisogno diventare solo un desiderio. Mentre attraversiamo uno dei tanti ponti di questa citta mi spiega che l’aurora polare è dovuta all’interazione tra particelle elettricamente cariche della luce solare nella ionosfera terrestre e che scontrandosi variano velocemente le lunghezze d’onda, questa variazione permette la formazione di quelle bande luminose dai colori assai suggestivi che si vedono nei documentari televisivi. Sensazionale, ho appreso tutto in poco. Mentre mi parla contribuisce allo scioglimento dei ghiacciai, questa attivista di Greenpeace e neanche lo sa. Prima di entrare mi da un bacio lungo dall’Emilia all’Africa. “Allora ragazzi, birra anche per voi?” Ci chiede con estrema gentilezza il cameriere. “Certo, doppio malto Edo” risponde a nome di entrambi. Stasera non c’è nessuno che conosciamo, ma non ci importa piú di tanto. Beviamo la nostra birra, paghiamo e andiamo via. Tornando a casa entriamo in take away cinese. Ordina lei per me, non ricordo mai i nomi io. Mentre aspettiamo la cena fumiamo una sigaretta abbracciati, davanti alla vetrina luminosa di questo squallido locale. Qualcuno vedendoci avrá pensato male del romanticismo del nuovo millennio. “Ragazzi, è pronto”. Dal ristorante cinese a casa diventa una corsa, non ho più voglia di camminare e non ho neanche fame, voglio solo farla mia. Saliamo le due rampe di scale al buio, apro la porta e poso le giacche mentre lei spacchetta tutto. Vado in bagno a lavarmi le mani e la faccia, quando torno la vedo seduta sul tappeto davanti al divano. Due bicchieri di un vino bianco molto economico, che avevo dimenticato nel frigorifero da qualche giorno, sono poggiati davanti a lei. “Siediti qua” mi dice sorridendo. Ed io mi sento felice, anche se alla fine siamo solo seduti a gambe incrociate su un tappeto in una piccola casa di questa grande cittá. Mangia con gusto e destreggia le bacchette come un’asiatica di quarant’anni, mentre io devo risultare sicuramente molto impacciato. Gettiamo i contenitori nella spazzatura e ci sediamo intrecciati forte come i suoi capelli, che lo sono raramente. “Posso accenderlo, ti prego” mi chiede, mentre le massaggio la nuca. “Vai pure, ma stai attenta che è alla fine dei suoi giorni” le rispondo. Quasi un anno fa ho comprato un giradischi malconcio al Marché de la Porte de Vanves, all’incrocio tra avenue Georges Lafenestre e Marc Sanghier. Dalla prima volta che è venuta a casa mia ha avuto una bizzarra fissa per quel coso. Purtroppo io non ho molti vinili, la gran parte me li ha regalati lei, ma non sono neanche di artisti che conosco alcuni. Lei le conosce tutte e ogni volta che inizio a cantare mi chiedo dove sia stata nascosta per i miei vent’anni precedenti, in che letti abbia dormito e con chi. Ma questo sono domande eternamente senza risposta. Mentre la porto in camera il disco è quasi a metá. “Spegni la luce” sussurra.

Camera con vista

Erano passate da poco le sei del pomeriggio quando mi accorsi che l’arancione del parco era diventato di un nero caldissimo. Ormai si riuscivano a vedere solo pochi alberi illuminati da quei lunghi lampioni arruginiti che sembravano delle sentinelle tedesche armate, disposti ogni sette metri, come sulla muraglia cinese. Penso che a volte le distanze sono una cosa meravigliosa, che essere giovani e forti non ci costringe ad essere sognatori, ma che i sogni li mastico ogni giorno, massaggiarli e farli crescere. Gli do da bere e da mangiare, per farli diventare maturi e insormontabili. “Vieni qua e smetti di guardare la cittá che va a dormire, non farmi piangere e non farmi dormire stanotte, sbrigati, ti aspetto” mi dice all’improvviso. Mi giro e la guardo come un padre, come un amante, come un fotografo. È seduta sul divano a gambe incrociate e con la mia camicia azzurra. “Che c’hai una sigaretta?” Mi dice, passandosi la mano nei capelli. Le sorrido e mi avvicino a quel castello di carte che mi invade la casa e i pensieri. Le porgo la sigaretta. La prende. L’accende e si guarda le gambe. Le guardo le gambe anche io, ma con più amore di quanto lo faccia lei. Mentre parliamo di un avvenire luminoso e di amici persi vado a prendere due birre dal frigorifero. Verso delle patatine in una ciotolina di legno e torno in salotto. “Non è giusto che ci si dimentichi di tutti” mi dice. “Non ci si dimentica delle persone, tranquilla, a volte semplicemente la cosa migliore da fare è ignorarsi” le rispondo. Aspira, assorta. “Perchè?” Mi chiede. La discussione si perde nei meandri di una delle mie teorie molto ciniche e inconcludenti. Mentre lei stende le gambe su di me, penso che è bellissima e che vorrei leggerle tutte le poesie crepuscolari che riesco a ricordare. Non ho nessun pensiero che vada oltre il suo corpo, il suo viso e le pareti di questa casa, che quando va via si disintegrano. Giochiamo ad accarezzarci con tutta la dolcezza che abbiamo. Sono passate due ore da quando avevo aperto la prima birra e prendiamo la gelida decisione di fare una passeggiata. Abbiamo fatto l’amore un altra volta, abbiamo continuato a parlare dei poveri libertini del ventennio precedente, che sapevano scrivere romanzi spettacolari, ma non erano in grado di tenersi una donna per piú di una settimana. Poi abbiamo preso i rispettivi cappotti e ci siamo avviati lungo la piccola e sudicia rampa di scale che mi collega con il resto del mondo.