La lotta armata

Mi alzo lentamente dall’acqua, come farebbe un mostro marino scozzese. Indosso i pantaloncini e mi ricordo che non sono una persona sicura di se. Vado in salotto, con i capelli bagnati e le mani bagnate. La vedo seduta sul divano con una coperta sulle gambe, anche se so che la vorrebbe sul cuore. Vedo la finestra spalancata, la chiudo per premura e per gelosia. Non può ammalarsi e nessun altro deve vederla nuda. Prendo due sigarette, gliene porgo una.
“Che cosa t’importa di Bea e di Edoardo?” Mi chiede
“sono amici miei”
“Certo, Bea un’amica”
“Ci siamo svegliate gelose stamattina” le rispondo con la peggior voce che mi riesce, ma capisco che non è molto.
“vaffanculo” e si accende la sigaretta con aria di sfida, ma tanto io la finisco prima.
“Ancora con questa storia, è successo tanto tempo fa, ed è rimasto in quella stanza”
Poi mi rendo conto che devo aver sbagliato a dire quella corsa, che può immaginarselo e starci male, mi rendo conto che sono troppo immaturo per capire come gira l’universo e quando fiorisce il gelsomino.
“Si”
Accarezzo la coperta sulle sue gambe, come avrebbe fatto sua madre se l’avesse vista in una notte piovosa d’inverno con la febbre alta. A volte la terra continua a girare e le stelle a girarci intorno, come tutti gli sciacalli e gli avvoltoi del mondo sui corpi morti degli ebrei nel gelo della Polonia. Mi scuso con un tentativo abbastanza ridicolo perchè lei non si smuove. Mi ripeto tra me e me stesso che non cambierò mai, che sono un disastro e che dovrei dormire di più.
“Non voglio che rivedi Beatrice, è come se qualcuno mi tirasse sott’acqua, ho paura di lei.”
Io non so cosa rispondere, perchè mi dispiace che non abbia capito niente, che è il mondo intero a dover paura di lei.
“Non devi aver paura di niente, lo sai che sono bravo.” Le rispondo dal fondocampo.
“Lo so, hai ragione, scusami”
La bacio e le salgo addosso. Un po’ mi dispiace che sia giá nuda, avrei voluto spogliarla io. Qualche ora dopo riesco ad alzarmi dal divano, provato da qualcosa di simile alle dodici fatiche di Ercole e alla disidratazione.
“Non credi dovremmo cenare?”
“Non a casa, usciamo.”
Uscendo dal portone del palazzo mi accorgo che l’asfalto è scolorito e che c’è vento. Lei cammina fiera, nel suo corpicino alieno, tra i suoi pensieri di ovatta. La guardo di fianco a me che mi stringe la mano, le sorrido. Sul suo volto si dipinge una leggera smorfia, forse è perchè non sorrido spesso, ma poi ricambia il sorriso. Sono le nove quando ci troviamo davanti l’insegna luminosa del ristorante.
“Mi sei mancato”
“Anche tu”

Frammento II

Dove sei stato, mi chiede piangendo. Ero qui, sono uscito a prendere solo le sigarette. Dove sei stato, me lo ripete, ma questa volta non piange. Mi guarda così forte da rompermi le costole e perforarmi i polmoni. Io che mi sento annegare, non riesco a respirare e a rispondere. Dov’eri. I suoi occhi di fuoco mi bruciano se li guardo troppo. Gli rispondo lentamente che ero uscito a comprare solo quelle cazzo di sigarette. Mi chiede perchè sono così teso nel rispondergli. Una pioggia di meteoriti simili a gocce d’acqua mi sfiora, quelli più piccoli mi colpiscono sulla testa e sulle spalle. Un passo indietro, e mi ritrovo su una crepa. Si apre sempre di più e sotto la suola non sento più nulla, ma non cado. Guardo sotto di me. Una folata di aria calda mi colpisce sulle gambe e sulla faccia deturpata dai piccoli sassi che schizzano verso il cielo. Intravedo aggrappati alle pareti di questa voragine delle persone, che cercano di salire fino a me, ma come su delle scale mobili che vanno nel verso opposto, rimangono immobili. Sento qualcuno che grida quello che doveva essere il mio nome. Il suo volto non lo vedo, ma riesco a distinguere la voce, la conosco bene. Qualcun altro mi chiede aiuto, tra un singhiozzo e l’altro. Qualcun altro ancora mi dice che smetterá di salire quando io inizierò a scendere, che non vede l’ora di avermi in quel canyon spettrale. E riconosco le voci di tutti e i loro elettrocardiogrammi piatti si svegliano quando mi vedono scendere di qualche centimetro. Le nuvole hanno coperto il cielo, nessuna stella bassa che può essere la mia guida. E le grida diventano piu assordanti. Sempre più assordanti. La brina si deposita sui miei capelli sui miei pensieri. poi sento una mano che mi stringe la caviglia, le unghie più simili ad artigli di animale che a quelle dell’uomo mi si infilano nella carne. I nervi non reggono, il muscolo non regge. Mi tira verso il fondo, dopo  quindici secondi di caduta libera non ho più aria nei polmoni. Serrate le palpebre e tutti i pensieri tra la nebbia di Milanona gennaio e il gelo di Bologna a Novembre.

Adolescenti estivi

Giocavamo a farci male, mentre mi spegnevo sotto ad un bicchiere di cristallo, ma tu non ti facevi nulla. E allora mi sono addormentato con le saracinesche che si abbassavano sugli occhi e poco lontano suonavano Chopin. Più andavano calando le note, più sentivo il caldo devastarmi le tempie. Mentre scendevo quei settanta gradini di pietra sentivo le gocce di sali minerali che non avrei mai più avuto indietro, solcarmi la faccia. Una prostituta dai portici mi guardava e immerso nei suoi occhi neri me ne andavo, saltando da una stella all’altra nell’immensitá di tutte le mie galassie interiori. Le supposizioni sulla grandezza dell’universo e i campi nomadi nei pressi delle stazioni non ci stupiranno più. Sono arrivato all’ultimo gradino, da solo, il mio braccio non ti serve più. Attraversavo questa squallida cittá che conosco a memoria nel buio più assoluto delle notti d’Agosto. non c’è nessuno nel raggio di ottanta chilometri, e non ci sará più nessuno quando oltre i cento sarò di nuovo a casa.

Anonimi tra la folla

Erano tutti in piazza quella mattina, sembrava un corteo di ambientalisti, perchè i capelli lunghi non erano ancora passati di moda. Tra la folla passeggia Murphy, un signore di quarantanni, che porta al guinzaglio un alano o forse è il cane che trascina lui. A volte è solo questione di punti di vista. Lo sguardo torvo, mira ai tombini, e si sente la solitudine e il gelo di plutone dall’iride celeste degli occhi. Murphy per strada non lo nota mai nessuno, una persona anonima, totalmente, come tante altre. I capelli spettinati ricordano il passaggio di un uragano, che si è divertito a devastare tutte le piccole case chiare che si erano costruite con fatica. Rasi al suolo i grattacieli e i supermercati, le poche certezze e tutti i dubbi che aveva. Ora, sulla testa di murphy ci puoi tracciare una mappa totalmente confusa e le strade indistricabili non torneranno mai più ad essere quelle di una volta. Mentre lui fuma una sigarett, seduto su una panchina lungo il corso, il cane inizia ad addormentarsi, trascinando nel sonno tutte le paure del suo padrone. Ma lui è troppo stupido per capirlo e lo strattona. Sul collo di quel cane dal nome che ricorda la germania, quasi non ci sono più peli, il collare è troppo stretto, ma Murphy è troppo occupato per accorgersene. Sempre intento a disegnare le nuove rotte dei suoi viaggi, che alla fine non lo porteranno in nessun porto sicuro. La giacca, sigillata da tre bottoni, ricorda un conflitto a fuoco, in cui gli unici a pagarne le conseguenze sono gli innocenti. Quei bottoni che dividono la giacca in due parti ricordano l’Europa, insignificante e importantissima, tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America.

Deserto

I segnali di fumo che esala la mia bocca, non sono mai troppo pochi. E come le strade addormentate nel traffico dell’ora di punta, i miei polmoni si riempiono di micropolveri. I tergicristalli per i chilometri ubriachi fradici, e le storie che non racconteremo mai a nessuno come l’aria condizionata di un utilitaria, per sbrinare i vetri, i pensieri. Ti eri risvegliata alle otto, completamente bagnata e mimetizzata nel prato davanti casa. Mi chiedevi che ne sarebbe stato di loro e di tutti gli insetti che ci giravano intorno negli anni precedenti, nei pomeriggi appesi come Mussolini. E che cazzo ne so, ti rispondo. Tu ti arrabbi ragionevolmente. Ma la congiuntivite mi ha serrato le palpebre, i lobi temporali che hanno smesso di funzionare. Le buone notti, rotte dai lampi e dai tuoni dei temporali che non vedremo mai.

Non c’è nulla da capire

Ti ricordi di quando le nostre arterie si intrecciavano ai fili delle cuffiette, descrivevano rotte immense, tra i miei pianti e le tue lenzuola sporche. Che poi hai l’aria di chi la sa lunga e di chi con la stessa aria mi affoga. Mi divertivo a creare dei piccoli vuoti tra le nostre bocche, per simulare un universo interiore. Che assieme, mano nella mano, ce ne siamo andati a spasso per le galassie che non conoscevamo fin troppo sposso. Ci siamo spinti lontano e poi tirati a riva, dal mare, dalle stelle e dall’erba alta dietro la sala prove. Scavarsi miniere nelle tasche è il nostro sport preferito, quando casa mia e vuota e da fuoei cerchiamo le chiavi, nei pantaloni e nelle borse. Quelle chiavi duplicate di nascosto e poi porse, tra le pile di carta che mi hai scritto e che ho conservato in una scatola si scarpe. Le mutande a lavare in lavatrice insieme alle nostre sporche bocche. Abbiamo abbattuto più alberi di quanto avremmo dovuto. Sono in pieno centro, in questa cittá che a maggio sembra il sudafrica ad agosto, e per strada solo magrebini e tunisini che camminano abbracciati. Baciarsi sensa senzo, con Manuel Agnelli in sottofondo, sotto l’ombra fresca delle stazioni. Contrare i chilometri macinati e le facce sfatte, il vino annacquato che ti danno da bere e il tuo doppio gioco infallibile e i miei libri interminabili. Che cerco le risposte sempre nel posto sbagliato, poi ti mastico la mia veritá a bocca aperta, e tra i miei denti intravedi i resti di un esplosione nucleare. Quando sorridi questi fanghi tossici scendono oltre i diciotto metri nel terreno della Campania, quando sorriderai poi a qualcun altro, le protezioni inutili si lacereranno e mi spunterá un occhio sulla fronte. Come quello sulla piramide. Il dolore ci fa prendere pessime decisioni e la paura del dolore è anche peggio. Quando mi lanci contro i san pietrini, alzo verso il cielo il mio scudo di plexiglas, che finirá per sgretolarsi, e nelle ultime righe prima di questa pioggia di meteoriti ti chiedo solo di amarmi, amarmi come una madre, amarmi come una moglie, amarmi come una figlia, come un’amica, come una foglia, e un thè caldo quando ho il mal di gola.

Tagli

Non so quale sconvolgimento astrologico possa cambiare il mio modo di pensare. Mentre lancio sos dal bagno di casa mia, l’unica stanza illuminata di questa casá nel blackout più assoluto del mio cervello.

Nulla

Saltando da una stella all’altra, percorro tutte le mie galassie interiori. Ma la luce della lanterna non basta, quando sull’asfalto del mercato, ormai addormentato, prendono forma i temporali. Che ci la lavano la bocca come un colluttorio, per cancellare tutti i graffi che ci spaccano il palato e non ci fanno dormire. E dimagrire, chiedendosi che ne sará di noi, quando tra vent’anni ci saremo omologati e assicurati, come le nostre automobili, come i nostri rapporti umani. Ogni dieci passi da queste parti si spara un colpo, per tenere a debita distanza le persone. Che come le prostitute non si concedono a gratis. Sono dieci giorni che cerco di avvicinarmi a me e a te, su un pianeta molto piccolo ai limiti di un sistema solare con due soli avevo pensato di averti vista. Ma poi mi ero sbagliato. Continuo a camminare nel silenzio della notte e nel vuoto dell’universo. Ogni centocinquanta metri un semaforo per semplificare le classiche attivitá degli uomini. Così futili. Poi iniziano a lampeggiare e nel caos io non trovo i cerotti, non trovo più la mia ombra e la mia scrittura

Mare Mediterraneo

Si passa lentamente le mani lucide sulle ginocchia, e mi sorride, come una madre, come un amante e come una mantide. Penso che quando le dita smetteranno di danzare sul suo corpo si attaccheranno al mio, e mi taglieranno a pezzetti. Avvolto nel tricolore italiano me ne ritorno al sicuro a casa e in una bara. Oppure a casa e in un bar.
“Mi dicevi della rapina?” Le chiedo.
“Pare siano stati due immigrati, per fame, avanzava timidamente qualcuno ieri al dipartimento, ma nessuno che si espone troppo, non vogliono apparire simpatizzanti per queste orde diaboliche di rifugiati”

“É comprensibile, hanno paura, ma non è giusto. Se apparissero come sono realmente si ritroverebbero isolati. Qui sembra tutto meglio di come è in realtá. Anche io prima di trasferirmi credevo che fosse una cittá gremita solo di stimoli.”

“Dovevi immaginare che fosse così, le persone sono le stesse.” Mi dice, fissando un paio di mattonelle poco sopra la mia testa.

Avrei voluto chiederle di girarsi di spalle e infilarsi tra le mie gambe, ma qualcosa me l’ha impedito.

“Hai ragione” e tento di apparire rassegnato.

Poi mi scava nelle orbite, arriva al nervo ottico e risale al cervello, mentre io mi sento come un ghiacciolo sul fuoco. Cerca, allungando la mano nei pantaloni, vicino alla vasca, le sigarette e me ne offre una. Mentre io penso che non voglio nulla di più, mi invade le lande desolate delle radici con le prime boccate di fumo.

“Ieri Edoardo mi ha chiesto di accompagnarlo a trovare Bea e non ho avuto il coraggio di negargli il mio supporto aereo.”

“Bravo, sono fiera di te”, ma il suo tono ha una marcata vena sarcastica.

“Smettila, posso aiutarlo, lo faccio.” Inizio a sentire il caldo del deserto che precede la tempesta di sappia. Ricorri ai bunker antiatomici, irrintracciabili dai miei radar e dalle mie paranoie. “Quando la siepe è troppo alta meglio girarci intorno.”

“Sei uno stronzo” sono le sue ultime parole prima di alzarsi. L’acqua che schizza mi va negli occhi, almeno se ho gli occhi rossi è colpa del sapone. Completamente nuda, scopare oltre la porta. E io riesco finalmente a stendermi comodamente. I leggeri raggi di sole che filtrati dalla persiana, arrivano in acqua, mi ricordano le scene di quei film di guerra in cui si vedono i colpi attraversare fulminei i primi metri d’acqua. E io mi riduco come un cesto bucato, faccio acqua da ogni parte, come i miei ragionamenti e i miei rapporti umani. Che una volta le p38 caricate a sale sarebbero riuscite a fare davvero male, mentre qualcuno guarda Milano da una finestra del terzo piano delle case popolari dove si è trasferita tua madre, e pensa che Milano è ancora tutta da bere. Passeggiare sulla costa della Manica o sui navigli milanesi, con nelle mani una chitarra e un computer. Guardando le mie gambe tra la schiuma e l’acqua ormai torbida mi chiedo sempre se mi sto comportando bene, se chi amo mi rispetta e se rispetto chi amo. Purtroppo, penso, non riuscirò mai a fidarmi a pieno e forse nessuno può farlo davvero, forse non ce n’è neanche bisogno, in amore in guerra e sul lavoro. La punteggiatura che diventa un agopuntura, per ricordarci delle contraddizioni e dei dolori cronici. L’acqua schizza di nuovo, e le lacrime sulle piastrelle hanno giá iniziato una gara, che è anche giá conclusa nell’assoluta consapevolezza, che siamo solo due gocce d’acqua in un maremoto. Che le inondazioni del mio bagno erano dovute solamente ad un pugno.